Dolly Alderton ha 30 anni quando pubblica “Tutto quello che so sull’amore” e vince il National Book Award. Mi ricordo che la cosa mi sorprese, il titolo sembrava uscito da una rivista patinata per ragazzine e quello che prometteva erano feste, alcool, amiche e cose squillanti.
Io di anni ne avevo pochi meno di adesso ma, anche se non ne ero completamente consapevole, un po’ credevo ancora che i libri migliori fossero quelli seri, contriti, genuflessi. Forse perché anche io ero “una cosa squillante” e pensavo che per questo nessuno mi avrebbe mai preso sul serio. Alderton è stata una delle prime autrici a farmi capire quanto sbagliavo, perché mi ha fatto ridere e mi ha fatto piangere e neanche per un momento ho dubitato che questo fosse un bel libro nonostante lei fosse una scrittrice squillante.
Scrive con ironia e acutezza un memoir che raccoglie i tasselli della sua formazione, parte da quell’età, che non è un numero ma va dal sentirsi “pronto a diventare grande da sempre” a quando temi “il punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita” in cui rimarrai bloccato, rinchiuso, incollato.
Questo infatti è un libro pieno di cose che fanno paura. Non parlo di mostri, alieni o case infestate ma di: essere sul punto di cadere, morire, rimanere soli, che tutto cambi anche quando dici che non cambierà nulla, la tua migliore amica che si sposa, non riconoscersi più, non dormire mai più la notte, disinnamorarsi, l’analista che serissimo ti chiede “Perché lei è qui?” (e tu non lo sai o non lo sai dire).
Ma mostra anche la ricerca di una giovane donna per il suo antidoto personale a questi incubi, raccontata e ascoltata senza giudizi. E lo trova, questo antidoto, è lo stesso delle riviste patinate per ragazzine: l’amore. Quell’amore romantico che Alderton qui decostruisce e poi rimpasta con ricette, errori e tentativi, ma anche quell’amore che impara a custodire e di cui l’intero libro è un’ode: per gli amici, per la famiglia che ti crei crescendo.