In una palazzina borghese di Tel Aviv, distribuite su tre piani differenti, abitano tre famiglie, tre mondi paralleli che corrispondono alle tre istanze psichiche freudiane. Al primo piano – il luogo dove le pulsioni dell'es scalciano e rivendicano attenzioni - c'è Arnon, furibondo e ossessionato dall'idea che l'anziano vicino che si prende cura della figlia maggiore le abbia in realtà fatto del male. Al secondo – la sede dell'io, e della sua incessante ricerca di equilibrio e conferme - vive Hani, condannata dal marito anaffettivo e sempre in viaggio a una solitudine disperata. Al terzo – il regno del super io, con il suo carico di imperativi e dover-essere - , infine, abita Dvora, giudice in pensione e vedova da poco, che sta reimparando a vivere.
I tre personaggi si svelano e si raccontano sempre in prima persona, e solo nel rapporto e nel confronto con l'altro. Arnon parla con un amico di cui non sentiamo mai la voce, in un dialogo serrato e ironico fra uomini. Hani scrive una lunga lettera a un'amica, testimone di una vita insieme e principio di realtà. Dvora ricostruisce quel dialogo ormai impossibile con il marito registrando la propria voce su delle vecchie audiocassette. Che l'alterità sia reale o immaginaria, sembra dirci l'autore, è comunque sempre necessaria se si vuole dar forma alle emozioni e al proprio sé, se ci si vuole raccontare davvero, ad un livello più profondo. È solo così che emergono gli errori, le ferite, le ossessioni, i desideri, il piacere e il dolore di andare a ripescare nei ricordi i segni di quel che sarebbe successo, per dirsi “lo sapevo, sarebbe andata così, era inevitabile”, e assolversi: “L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce”.
Eshkol Nevo, Tre piani (Neri Pozza)
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
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