Nel 2017 su Sana’a piovevano le bombe. La capitale dello Yemen soffriva una delle fasi più dure della guerra civile che l’aveva investita tre anni prima, e che ancora non è terminata. Eppure, anche in una città in agonia c’è chi decide di non smettere di credere nella propria missione. È il caso di Mokhtar Alkhanshali, yemenita di nascita ma cresciuto nella San Francisco dei quartieri più dimessi, affabulatore, affascinante e sorprendente incarnazione dell’american dream, del sogno di affrancarsi dai lavori umili che la sua famiglia è costretta a svolgere da quando è arrivata in America.
Il compito che Mokhtar si è assegnato è prossimo all’utopia: restaurare la tradizione millenaria del caffè yemenita, la più antica del mondo, importarne i chicchi negli Stati Uniti e riscattare il proprio paese d’origine dalla reputazione di essere uno dei produttori peggiori in assoluto di questo bene. Per riuscire nel proprio intento, Mokhtar dovrà stringere amicizie impensabili, esplorare in lungo e in largo uno Yemen in costante fermento, indebitarsi dissennatamente e salvarsi, ogni volta, per un soffio. Nel Monaco di Mokha, più un resoconto giornalistico che un romanzo, si intrecciano spunti numerosi e complementari: l’emozionante e reale vicenda di Mokhtar e la sua visione del fair trade, la recente storia politica e sociale dello Yemen e quella antichissima del suo caffè, le condizioni di vita degli agricoltori, la lavorazione della pianta, dal raccolto, alla tostatura, ai cupping.
Tanto più qualcosa è integrato nel nostro quotidiano, tanto più tendiamo ad ignorarne le origini, la fatica delle persone che ce lo rendono disponibile. Eggers ci invita a valicare la nostra tendenza a dare tutto per scontato, ricordandoci che si vive e si muore nel produrre caffè. Certo, la retorica un po’ trita dell’opportunità da crearsi più che da trovarsi che circonda come un’aura la figura di Mokhtar potrebbe dare alle volte un lieve senso di fastidio, ma si capisce che l’intento di Eggers è quello spronare contro l’inazione, di accettare il fallimento (numerosissimi quelli di Mokhtar) come momento ineliminabile e proficuo delle nostre vite, di lasciarsi stupire ogni giorno anche da quello che pensiamo di conoscere appieno, ma di cui in realtà, in fondo, non sappiamo nulla.
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