È il 2016 quando a Jonathan, 31 anni, viene la febbre. Una febbriciattola leggera, spossante, che non se ne va per settimane. Il termometro non supera mai i 37,5, che dai, non è davvero febbre, - sì, ma io sto male, non riesco a fare niente. E allora comincia a fare esami, visite, controlli, uno dopo l'altro, per capire di cosa si tratta.
È il 2016 quando a Jonathan, 31 anni, viene diagnosticato il virus dell'HIV, il fantasma che per tutti i nati o cresciuti negli anni '80 ha dei significati ben precisi, radicati nel nostro immaginario più profondo: corpi devastati, scavati dalla malattia, uno stigma sociale impossibile da cancellare – sì ma com'è che te lo sei preso? Forse hai esagerato.
È il 2016 quando Jonathan spariglia le carte e, dopo la diagnosi, decide di proteggersi dal panico della malattia con l'unico strumento di liberazione davvero efficace: la parola, la parola urlata, scomposta, gridata ai quattro venti affinché tutti possano sentirla. Sono sieropositivo, ma è il 2016 e non morirò. La mia malattia crea molti più problemi a voi che ne avete paura che a me che ne sono portatore.
Febbre non è solo un romanzo, è un'opera di ricostruzione genealogica dell'io narrante, che si cerca, e si ritrova, nelle parole che si fanno carne. L'infanzia nelle case popolari di Rozzano, figlio di genitori ragazzini alla disperata ricerca delle proprie strade, l'omosessualità, gli amori, i gatti, il desiderio (o meglio, la necessità) di spiccare, di farsi notare, di brillare, di essere migliore di tutti, e, sempre, il rapporto con gli altri. Le voci, gli sguardi, i rimproveri, i chiacchiericci che vengono interiorizzati a tal punto da non distinguersi più dalla voce di chi racconta, anch'esse un virus, un'infezione, e che si riflettono nello stile e nella scrittura - perché in fondo se è vero che l'inferno sono gli altri è anche vero che quell'inferno ce lo portiamo sempre appresso.
Febbre, Jonathan Bazzi (Fandango)
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