I campi dell’Oklahoma sono aridi e i Joad a casa loro non ci possono più stare. La fattoria che li ospita e sfama da tre generazioni, con la terra per la quale il bisnonno ha combattuto contro i pellerossa, non è più loro. In realtà, loro non è mai stata del tutto; e la banca se l’è ripresa, sfrattandoli a forza, quando il Dust Bowl e la Grande Depressione li hanno costretti all’insolvenza.
Senza una casa, senza modo di guadagnarsi da vivere, i Joad sentono incombere lo spettro della fame, della tragedia. Ma forse c’è speranza. In città un uomo elegante va distribuendo volantini gialli che promettono lavoro e felicità nelle splendide valli della California. Forse, di speranza, ce n’è davvero.
Così, in una torrida estate dei primi anni Trenta i Joad svendono quel poco che non possono portarsi dietro, caricano i loro miseri averi su uno scassatissimo Hudson Super Six del ’26, e tra incertezze e ripensamenti, partono verso la terra promessa di cui hanno solo sentito parlare; con loro, come loro, altre migliaia di famiglie di agricoltori piegate dalla carestia e dalla crisi economica. Li attende un viaggio sovrumano e spaventoso. Sempre più indigenti, sempre più discriminati man mano che si allontanano dalla loro terra natale, i Joad e chi come loro è fuggito da casa scoprono che la segregazione è possibile anche tra simili.
Furore è un romanzo che mette i brividi. Incontro tra fiction e reportage, ci carica a forza sull’autocarro sul quale i Joad viaggiano in dieci, ci costringe a osservarne le rughe di preoccupazione, le sopracciglia aggrottate dall’apprensione, a condividerne le misere gioie e i grandi tormenti.
Capolavoro del realismo del secolo scorso, in Furore l’eloquenza intrinseca e potenziale del linguaggio descrittivo dirompe a viva forza, svelando un sottotesto densissimo in cui si intrecciano le emozioni dei personaggi e le riflessioni dell’autore sulle grandi tematiche con cui gli stessi Joad devono misurarsi: la lotta contro l’ingiustizia, i dubbi della spiritualità, le trasformazioni di una nazione intera.
Quando ho preso in mano il libro per la prima volta, ho storto il naso perché non sono appassionato di narrativa statunitense, tantomeno se, come credevo, incentrata sulle vicende di un singolo nucleo familiare. Mi sono ricreduto presto. La storia dei Joad è solo la lente attraverso cui Steinbeck denuncia impassibile e senza edulcorare le bassezze, i medi e le virtù di cui è capace l’intera specie umana. Ad accrescere la sensazione di ampliamento di prospettiva concorrono, inframmezzati a quelli che seguono le vicissitudini dei Joad, veri e propri capitoli corali, nei quali la focalizzazione abbraccia la grande mente collettiva degli esodati, a pieno titolo coprotagonista del romanzo. Così, nelle loro infinite difficoltà, i Joad incontrano chi come loro ha dovuto prendere scelte dolorose: e con loro si sostengono, si proteggono, si consigliano. Più scura è la notte, più luminose le stelle: la fratellanza nelle avversità rappresenta uno dei pochi spiragli di salvezza praticabili. E questo perché a ciascuno di noi è sotteso il valore fondamentale, imprescindibile, della solidarietà.
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